Ong, angeli o demoni?
Angeli che salvano vite o criminali al soldo delle mafie di mezzo mondo. Sembrano non esserci vie di mezzo quando si parla di organizzazioni non governative. Le Ong sono al centro delle cronache nostrane da qualche anno, fanno notizia perché sono loro a salvare le vite di chi tenta la sorte e prova ad attraversare le acque del Mediterraneo con la speranza di allontanarsi il più possibile da miseria e guerre. Open Arms, Sea Watch, Sos Mediterranée: nomi che, più o meno di sfuggita, abbiamo sentito e letto tutti. Al telegiornale, sui quotidiani e in bocca al ministro dell’Interno, che ne ha fatto i nemici numeri uno sui quali costruire la sua opera di consenso e di governo.
Ma le Ong esistono da molti decenni e ce ne sono delle tipologie più disparate, non sono un’invenzione del politically correct o dei cosiddetti “buonisti”, né tantomeno delle contingenze legate all’immigrazione dal Nord Africa. A definirle in quanto tali ci ha pensato l’Onu nel 1945, nell’articolo 71 della Carta che istituiva le Nazioni Unite. Per certi versi, la nascita di organizzazioni umanitarie in senso ampio è ben più datata, basti pensare che la Croce Rossa ha iniziato la propria attività nel 1863.
Sì, ma cosa sono, esattamente? Le Ong sono organizzazioni private che non hanno fini di lucro. Come suggerisce il nome, sono indipendenti dai governi e una parte del loro finanziamento arriva da fonti private, tramite donazioni. Come si accennava, sono impegnate nei campi più disparati: dalla cooperazione allo sviluppo alla tutela dell’ambiente, dall’educazione dei minori alla salvaguardia dei diritti umani.
In Italia le Ong devono ottenere il riconoscimento da parte del Ministero degli Esteri per poter operare: in particolare è l’Aics, Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo, che tiene il registro di tutte le organizzazioni non aventi fini di lucro. Attualmente in questo elenco sono iscritte 227 realtà differenti. Il portale Open Cooperazione, che raccoglie informazioni e dati su circa 200 organizzazioni in Italia, ci regala uno spaccato interessante del lavoro svolto dal mondo delle no-profit: sono oltre 20mila le persone che lavorano in questo settore, di cui 17500 all’estero e le restanti 3mila dentro i confini nazionali, mentre i volontari sono circa 85mila.
I dati più recenti a disposizione sono quelli del 2017 e comprendono anche i numeri sulle donazioni: si parla di oltre 900 milioni di euro raccolti dalle Ong che fanno parte del progetto Open Cooperazione. Di questi, il 60 percento sono fondi istituzionali, il restante 40 dai privati. Inoltre 7 su 10 hanno dichiarato di utilizzare almeno l’80 percento dei loro fondi per le spese legate alle missioni che compiono.
Su questo tema affiora la prima critica: molte Ong sono nate con un animo “movimentista” e come organizzazioni ben distinte dai governi e dagli enti pubblici che gestiscono l’apparato statale. Anzi, spesso e volentieri i fini di Stato e no profit sono divergenti. Eppure l’Aics, braccio amministrativo dello Stato italiano in questo ambito, finanzia tanti progetti di cooperazione allo sviluppo (anche se sta montando la polemica a causa del taglio del budget ai sovvenzionamenti per i prossimi anni), Regioni e Comuni fanno donazioni, l’Unione Europea riserva milioni di euro finalizzati a finanziare missioni in giro per il mondo. Una situazione che porta giudizi negativi da due direzioni opposte: c’è chi non sopporta che lo Stato spenda soldi in questo settore e ritiene che i finanziamenti dovrebbero arrivare solo dai privati, un modello in stile “pensiamo agli affari nostri, se gli altri crepano di fame fatti loro”; dall’altra riemerge l’anima anni ’80 delle Ong, quella più schierata ideologicamente (in genere a sinistra), che inserisce gli Stati tra i responsabili, insieme alle multinazionali, delle enormi disuguaglianze che esistono nel mondo e che per questo vorrebbero una separazione netta dai governi, specialmente da quelli dei Paesi occidentali.

Invece si è arrivati a un compromesso che in molti casi fa comodo a tutti: lo Stato ottiene maggiore trasparenza da organizzazioni in cambio di donazioni e sgravi fiscali, a cui le Ong in questo momento non possono rinunciare. Ma in Italia la polemica monta, ingigantita da chi specula politicamente sulle disgrazie altrui e si parla sempre di più delle organizzazioni non governative come di entità opache, a volte finanziate dai “poteri forti” alla George Soros, che vogliono spostare gli equilibri mondiali utilizzando gli aiuti umanitari come cartina di tornasole. Se questo giudizio tranchant è sicuramente troppo affrettato, specialmente nei riguardi delle Ong italiane che devono rendere pubblici i propri bilanci e stilare l’elenco delle donazioni, ha trovato qualche riscontro in altre realtà, soprattutto in passato. In Germania e nei Paesi Bassi il controllo governativo non è stato sempre così stringente, solo negli ultimi anni si stanno cominciando a vedere report dettagliati da parte delle Ong e questo vale soprattutto per quelle finite “sotto i riflettori”, perché impegnate nel salvataggio dei migranti nel Mediterraneo. Molti più dubbi restano invece sul processo di selezione e sulle quantità di fondi erogati a no profit che operano, ad esempio, in Medio Oriente, in particolare nella Striscia di Gaza e in Cisgiordania.
Fin qui si è parlato del rapporto tra Stato e Ong, ma cosa si può dire dei privati? Perché c’è tanto interesse a donare cifre consistenti a queste organizzazioni? Sgombriamo il campo da ogni possibile dubbio: aziende e imprenditori non si sono convertiti all’umanitarismo per un’improvvisa illuminazione, ma perché, in certe situazioni, conviene. In Italia sia le persone fisiche sia le società possono dedurre dal reddito complessivo nel limite del 10% del reddito dichiarato (nella misura massima di 70.000 euro), le cosiddette erogazioni liberali (contributi, donazioni, beneficenza) effettuate a favore delle Ong. In Germania la legge prevede la possibilità per le compagnie di dedurre fino al 20 percento del relativo reddito imponibile per l’imposta sul reddito, l’imposta sulle società e l’imposta commerciale comunale. Altrimenti è possibile applicare una detrazione fino allo 0,4 per cento della somma del fatturato, dei salari e degli stipendi.
Oltre agli sgravi fiscali, le aziende che si affiancano a determinate campagne hanno anche un ritorno di immagine: favorire lo sviluppo dell’educazione dei bambini in un villaggio dell’Africa centrale, finanziare il rimboschimento di aree dell’Amazzonia depredate per interessi economici, salvaguardare specie in via d’estinzione sono tutte buone cause di cui vantarsi, una specie di medaglia da appuntarsi al petto. E, perché no, anche per coprire qualche magagna: clamorosa in questo senso la storia di The Nature Conservative, associazione ambientalista americana, e British Petroleum (BP), la major britannica del petrolio responsabile del disastro ambientale della “Deepwater Horizon” nel 2010 nel Golfo del Messico. La BP intratteneva da anni legami con questa associazione e ha continuato a finanziare progetti anche dopo quanto avvenuto al largo della costa della Louisiana, prima di dover interrompere qualunque rapporto a causa dell’ondata di sdegno negli Stati Uniti.

Criticare, però, non significa necessariamente demonizzare. Le Ong e le organizzazioni senza scopo di lucro possono essere le prime promotrici di un’azione di cambiamento. In America l’utilizzo delle armi da fuoco è diventata una vera piaga sociale. Per cercare di contrastare il fenomeno, nel 2000, è stata creata a Chicago un’associazione chiamata “Cure Violence”: fondata da un epidemiologo dell’Università dell’Illinois, questa Ong si è affidata ai membri più prestigiosi delle comunità in cui è presente per trasformarli in messaggeri di pace e maestri di dialogo, per favorire la risoluzione pacifica dei conflitti nei quartieri più disagiati delle grandi città americane. L’approccio utilizzato sembra funzionare: a New York, in passato una delle metropoli in cui il tasso di omicidi era tra i più alti nel Paese, nelle aree in cui Cure Violence ha operato si è registrata una diminuzione del 60 percento delle sparatorie negli ultimi anni.
Il rischio più grande a cui le Ong vanno incontro, però, non è tanto quello di essere additate come il male assoluto dai più disparati leader populisti, ma l’esatto opposto: essere sfruttate dai governi più scaltri. Già nel 2004 un rapporto del Defense Science Board, comitato di esperti incaricato di fornire consulenze al Dipartimento della Difesa statunitense, l’equivalente del nostro ministero della Difesa, spiegava come le Ong potessero essere utilizzate al servizio degli Stati. All’epoca le guerre in Afghanistan e Iraq riempivano le pagine dei giornali, si discuteva di ricostruzione, di “state building”, di aiuti alle popolazioni. Nel report si parlava esplicitamente di un ruolo assegnato alle Ong, quello di sostegno al processo di rinascita dei due Paesi: sulle modalità però non vi era libera scelta, ogni mossa andava concordata con il Pentagono e l’apparato militare, in rispetto degli interessi americani. Nessuna libertà di azione, quindi, solo uno dei tanti strumenti per ottenere il risultato voluto dal governo di Washington.
Anche quando sono state lasciate più libere di agire in zone di guerra, le Ong si sono spesso ritrovate a dover scendere a patti: tantissime organizzazioni di fama internazionale, da Medici senza frontiere fino a Emergency, operano da anni in porzioni di mondo in cui la violenza, l’esplosione di bombe e mine, lo scontro tra bande armate sono all’ordine del giorno. Per poter operare in situazioni così delicate c’è bisogno dell’approvazione delle parti in lotta, tacita o esplicita che sia. Questo è un punto difficile da accettare, perché secondo alcuni sporcherebbe la reputazione delle stesse Ong, costringendole a trattare la loro permanenza nelle aree di attività.
Inoltre la loro natura di associazioni nate in Paesi sviluppati che si muovono in aree del globo in cui le culture e le tradizioni sono diversissime dalle nostre, a volte può essere deleteria. Salvare vite umane e favorire la crescita di realtà povere sono motivazioni importanti, il massimo a cui si possa aspirare se si possiede un forte spirito altruista: eppure far affluire all’improvviso una grande quantità di risorse economiche e tecniche in un luogo devastato dai conflitti o martoriato da calamità naturali, spesso finisce per essere solo un intervento temporaneo, che lascia invariate le cause del problema. Come un cerotto messo a coprire una piaga infetta che continua a sanguinare, senza capirne i reali motivi. Prima di dibattere su chi finanzia chi, sugli interessi da dietrologia spicciola, sulle polemiche fatte sulla pelle dei disgraziati, andrebbe risolto questo enorme dilemma.