Da dove viene questo gas
C’è un animale mostruoso nel Mar Caspio, una bestia enorme dal peso di 29mila tonnellate. È un predatore, ma non ha zampe, non ha fauci: è semplicemente Shah Deniz, il “re del mare”, uno degli impianti di estrazione del gas più grandi al mondo. Da qui, a 90 chilometri di distanza dalle coste dell’Azerbaigian, parte l’alternativa al dominio russo sull’esportazione del cosiddetto “oro blu” in Europa.
Il punto di arrivo previsto del gas scovato a 600 metri di profondità sotto il Caspio è San Foca, frazione di Melendugno, comune del leccese con una delle spiagge più belle del Salento. Per portarlo dall’Azerbaigian alle coste italiane, un consorzio di multinazionali dell’energia sta realizzando da anni un’opera imponente, una serie di gasdotti dalla lunghezza totale di 3500 chilometri e dal costo (stimato) di 45 miliardi di dollari. Il nome che gli è stato dato è Southern gas corridor (Sgc), il corridoio meridionale del gas, ed è costituito da tre sezioni: la prima, la South Caucasus Pipeline, va dall’impianto di Shah Deniz alla Turchia, passando per Tbilisi, la capitale della Georgia; la seconda è il Tanap, Trans-Anatolian natural gas pipeline, che trasporta il gas dalla città turca di Erzrum al confine con la Grecia; infine, c’è una sigla conosciuta anche in Italia, il Tap.
Tap sta per Trans-Adriatic pipeline, ed è l’ultimo gasdotto, quello che dal minuscolo villaggio greco di Kipoi arriva, dopo aver tagliato orizzontalmente l’Albania, in Italia, nei pressi di San Foca. Nel nostro Paese sono solo 8 chilometri d’impianto, ma forse sono quelli più contestati. Da anni il movimento “No Tap” si batte contro questa opera, ritenuta dannosa per l’ambiente (in particolare per la posidonia oceanica, pianta che protegge la costa dai processi di erosione) e pericolosa per la salute dei cittadini. Prima di creare l’ormai defunta coalizione di governo con la Lega, era stato il Movimento 5 Stelle ad accaparrarsi la benevolenza della popolazione di Melendugno con impegni del tipo: “Una volta al governo bloccheremo il Tap in 15 giorni” (cit. Alessandro Di Battista).
Ma si sa, le promesse elettorali sono come il vento, spengono i fuochi piccoli, ma accendono quelli grandi, tanto per parafrasare la canzone di un’artista che con la Puglia ha qualche legame. Il fuoco grande, in questo caso, è quello delle tante multinazionali coinvolte nel progetto del Southern gas corridor: a far parte del consorzio ci sono la milanese Snam, gli inglesi di Bp, la compagnia di Stato azera Socar, con il 20 percento delle quote, la belga Fluxis (19 percento), la spagnola Enagás (16 percento) e gli svizzeri di Axpo con il restante 5 percento. Difficile resistere alla pressione combinata di tante realtà importanti. E infatti il governo di allora, con l’asse Lega-5 Stelle a sorreggerlo, non ha resistito per nulla: «Vi posso assicurare che non è semplice dover dire che ci sono delle penali per quasi 20 miliardi di euro. Ma così è, altrimenti avremmo agito diversamente» disse l’allora ministro dello Sviluppo economico, Luigi Di Maio.
Insomma, il Tap verrà completato, perché gli interessi economici e geopolitici sovrastano i partiti, le posidonie e i pericoli per la salute delle persone. L’Italia ha bisogno del gas del “re del mare”, anzi, l’intera Europa ne ha bisogno. I dati del 2018 sull’importazione dell’“oro blu” messi a disposizione dal ministero dello Sviluppo economico ci dicono che il nostro Paese ha ricevuto dalla Russia quasi 33 miliardi di metri cubi di gas lo scorso anno, pari al 48,4 percento del totale importato. Al secondo posto di questa particolare classifica c’è l’Algeria (con il 26,5 percento), il Qatar al terzo (9,6 percento) e la Libia al quarto (6,6 percento). Una sudditanza enorme, che consente a Mosca di tenere sotto scacco l’Italia e vari altri paesi europei. Per questo il corridoio meridionale assume un’importanza strategica in un’ottica di diversificazione dei fornitori.
Tralasciando il fatto che i russi sono, per vie traverse, presenti anche nel progetto del Sgc, come scoperto due anni fa da un’inchiesta dell’Espresso, l’oligarchia energetica che sostiene Putin non è certo rimasta a guardare. Negli anni sono stati e sono ancora tanti i progetti in piedi per inondare l’Europa di gas. Nel 2007 l’allora amministratore delegato di Eni, Paolo Scaroni, e i manager del colosso Gazprom firmarono un accordo per la realizzazione del South Stream, gasdotto che avrebbe dovuto attraversare il Mar Nero, la Bulgaria, il nord della Grecia e arrivare in Puglia. Un secondo troncone avrebbe dovuto proseguire dalla Bulgaria verso nord, direzione Tarvisio e Austria. Poi però è arrivata l’annessione della Crimea da parti dei russi, la guerra nell’est dell’Ucraina e le sanzioni dell’Unione europea. Nel 2014 il piano è naufragato per volontà dello stesso Putin e con Saipem, azienda sussidiaria di Eni (fino al 2016) a cui era stata commissionata la realizzazione del tratto offshore del gasdotto, che ha da poco chiuso il contenzioso con Gazprom.
Nel frattempo, i rapporti tra Mosca e la Turchia si sono fatti più cordiali (o se volete più economicamente convenienti) e allora il presidente russo ha offerto il Turk Stream a Erdogan, un’altra pipeline che arrivasse fino al confine con la Grecia. Il progetto è andato a buon fine, tanto che l’impianto è stato inaugurato un anno fa e l’intento è quello di allargarlo nuovamente a vari membri dell’Ue, Italia compresa.
Perché però la Russia deve fare tutti questi giri per raggiungere i Balcani e il Mediterraneo? La ragione è una sola e si chiama Ucraina. La guerra nel Donbass e la Crimea sono solo le ultime vicende di una rivalità che va avanti da decenni e che si manifesta in tutti i settori, da quello politico a quello economico. I contrasti sulla questione risalgono almeno al 2005, quando Mosca accusò i “vicini di casa” di non pagare le forniture e chiuse i rubinetti a inizio 2006, mandando nel panico buona parte dell’Europa continentale, che per alcuni giorni vide drasticamente ridotto l’approvvigionamento di gas. Ad aprile 2010 le due parti in causa trovarono un accordo per i dieci anni successivi: la Russia tagliava del 30 percento il costo del gas e in cambio otteneva di mantenere la propria flotta nel Mar Nero con base a Sebastopoli, in Crimea, per altri 25 anni. Una mossa che appena quattro anni dopo si sarebbe rivelata fondamentale per l’annessione della penisola da parte della Russia.
Intanto, Putin e la Gazprom pianificavano un modo per aggirare l’ostacolo ucraino, sempre più fastidioso. La soluzione, parziale, è stata costruire una pipeline che passasse dal Mar Baltico e arrivasse fino in Germania, il Nord Stream. Questo avveniva nel 2011, con tanto di Angela Merkel esultante all’inaugurazione dell’impianto. Oggi in ballo c’è il raddoppiamento della linea, con lo Stream 2 in dirittura d’arrivo, ma le difficoltà non sono mancate. Gli Stati Uniti hanno fatto di tutto per opporsi, invitando i paesi baltici – Estonia, Lettonia e Lituania – a non approvare il passaggio del gasdotto nelle loro acque territoriali e di valutare l’ipotesi di una fornitura di gas naturale liquefatto proveniente direttamente dagli Usa. La Russia ha schivato nuovamente il problema, trovando accordi con Finlandia, Svezia e, dopo interminabili trattative, con la Danimarca. Un colpo durissimo, dato indirettamente anche all’Ucraina, che a questo punto teme di perdere buona parte degli introiti derivanti dal passaggio del gas russo sul proprio territorio. A esultare, oltre a Putin, c’è solo la Germania, che si appresta a diventare un punto di snodo cruciale per l’oro blu in Europa.
L’Italia, in questo grande gioco economico e geopolitico è inevitabilmente destinata a perdere, un giocatore che avrebbe potuto vincere gli Europei del metano e che invece si ritrova ai margini di una partita fondamentale. I costi della bolletta energetica nostrana aumenteranno e di molto: già quest’anno, secondo il commissario dell’Autorità di regolazione per energia reti e ambiente, Stefano Saglia, potrebbe esserci un incremento di 500 milioni di euro, lo stesso vale per il 2020. Questo perché la Germania, aggressiva e spietata quando c’è da far valere il proprio interesse nazionale, sta rivedendo a proprio favore le tariffe, scaricando verso i paesi stranieri i costi per il trasporto del gas naturale. Così l’Italia, dopo il fallimento del South Stream e la perdita di credibilità a causa dei tentennamenti sul Tap, si ritroverà, ancora una volta, alla canna del gas altrui.