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Mayday, caduta libera

Chissà cosa penserebbe “Ribot” Virginio Reinero di questa situazione, lui che di aerei, prima militari e poi civili, era considerato tra i migliori piloti. Chissà cosa penserebbero i “suoi” diciotto passeggeri del volo Torino-Roma-Catania, che il 5 maggio 1947 hanno battezzato, insieme a lui, il primo volo della Aerolinee Italiane Internazionali (Ali) con un trimotore Fiat G12 del nome evocativo, Alcione. E chissà, soprattutto, se gli dei avranno pietà della povera Alitalia, la discendente della Ali, come ne ebbero per Alcione, figura della mitologia greca salvata e trasformata in uccello per evitarle la morte.

Una compagnia che sta vivendo una crisi infinita, che si protrae da quasi tre decenni tra fallimenti, licenziamenti, privatizzazioni, acquisti da parte di altre compagnie e disastri manageriali. Un vero e proprio pianto, considerata la storia precedente, quella di un’azienda che ha visto nascere e crescere il mito della “Freccia alata”, il simbolo di Alitalia fino a tutti gli anni ’60, rappresentazione di un Paese che voleva far di tutto per svilupparsi e di un’azienda alla ricerca di un suo spazio nell’élite dell’aviazione civile.

L’ormai ex compagnia di bandiera italiana ha cominciato a scricchiolare pericolosamente fin dall’inizio degli anni ’90, quando il mercato dell’aviazione civile è stato liberalizzato. Un processo che in Europa è durato una decina d’anni, tra il 1987 e il 1997, e che portato a una deregolamentazione del settore del trasporto aereo, prima ingabbiato in una serie di accordi fra Stati sulle tariffe e una sostanziale assenza di concorrenza tra compagnie nazionali. Un processo che ha trovato Alitalia totalmente impreparata e che è stato aggravato dall’arrivo dei vettori low cost, in grado di garantire prezzi più bassi sulle tratte a medio e corto raggio, pur offrendo una qualità del servizio inferiore alle compagnie di bandiera dei paesi europei.

Nel 1993 l’IRI, l’istituto statale che controllava Alitalia, guidato al tempo da Romano Prodi, inizia un dialogo con Air France per una possibile partnership: i colloqui però si interrompono rapidamente a causa delle dimissioni del presidente della compagnia francese, Bernard Attali, contestato dai sindacati per il piano di ristrutturazione dell’azienda che prevedeva il taglio di 4mila dipendenti. Nel 1996 la figura di Romano Prodi ritorna prepotentemente a stagliarsi tra le nuvole e il cielo nei quali vola, sempre più a fatica, il vettore aereo nostrano: il suo governo decide di privatizzare l’azienda e il 37 percento delle azioni vengono quotate in borsa. Ma le cose non vanno. Alitalia ha puntato molto sulle tratte interne, in cui la competizione delle low cost è spietata.

È così che nasce l’idea di un matrimonio di puro interesse con l’olandese Klm. Un’unione senza amore, senza rispetto tra le parti, nella quale i contrasti, prima che sulla strategia per il rilancio delle due aziende, nascono sul modo di vivere la relazione da parte dei manager italiani e di quelli olandesi. I primi esageratamente amanti del telefono durante le riunioni, i secondi abituati a mangiare troppo presto per gli standard mediterranei. In questo clima, l’accordo tra i promessi sposi dell’aviazione viene portato a compimento nel 1999: Alitalia garantisce agli olandesi che l’hub della compagnia si sarebbe trasferito alla rinnovata Milano-Malpensa a discapito di Fiumicino e di Linate, che avrebbe mantenuto solo il ruolo di aeroporto “navetta” con Roma. In cambio Klm versa 100 milioni di euro ad Alitalia per contribuire alla realizzazione del potenziamento di Malpensa. La “passione” tra gli sposini finisce però molto rapidamente, anche perché il Governo italiano non rispetta i patti sul trasferimento dei voli da Linate al periferico aeroporto in provincia di Varese e all’improvviso Klm si tira indietro, divorzia, salvo risposarsi di lì a poco con Air France. L’unione franco-olandese è possibile anche grazie ad Alitalia, che fa causa a Klm per aver stracciato il contratto e vince la causa pretendendo 250 milioni di euro di risarcimento: Klm prova a pagare, almeno in parte, in azioni, ma il management italiano vuole il denaro cash e le finanze del vettore olandese vanno in crisi, salvate dall’intervento francese. Una mossa che col senno del poi taglia le gambe ad Alitalia.

Siamo alla vigilia dell’11 settembre 2001: l’attentato alle Torri Gemelle mina profondamente le finanze di tutte le grandi compagnie aeree. Alitalia fa quel che può per sopravvivere, ma il baratro è sempre dietro l’angolo, scioperi e proteste si susseguono. La compagnia entra così nello SkyTeam, alleanza aerea capeggiata da Air France: sembra un primo passo per riavvicinarsi all’azienda francese. Nel 2006 Romano Prodi ci prova ancora, il governo italiano mette in vendita un altro 39 percento dell’azienda, stavolta senza passare dalla Borsa, ma tutti i possibili acquirenti battono in ritirata. A fine 2007 ricompare sulla scena Air France, disposta ad acquisire il 49,9 percento di Alitalia: finalmente ci siamo, direte. E invece no, perché nel frattempo l’esecutivo guidato dal professore bolognese va in crisi, si deve andare a votare e Silvio Berlusconi lancia la sua battaglia per un’Alitalia che resti in mano agli italiani. I dirigenti della compagnia francese, preoccupati dalle parole del Cavaliere, scappano per evitare guai.

L’au revoir di Air France e la schiacciante vittoria di Silvio Berlusconi alle elezioni del 2008 segnano un’altra tappa importante di questa storia travagliata. Nel mentre Alitalia è praticamente fallita. La gestione dell’amministratore Giancarlo Cimoli, nominato nel 2004 proprio da Berlusconi per salvare la società, è disastrosa, ma le premesse della catastrofe c’erano tutte, visto che il nuovo ad aveva già fatto ampi danni durante i suoi otto anni alla guida di Ferrovie dello Stato. In questa fase la compagnia acquista a prezzi maggiorati piccole realtà come Volare e Air Europe che la fanno sprofondare ulteriormente. Alitalia è letteralmente spolpata, tra suddivisioni di utili milionari tra i principali azionisti e stipendi tre volte più alti di quelli dei manager delle principali compagnie aree mondiali: nel 2015 Cimoli viene condannato in primo grado a otto anni e otto mesi di reclusione per bancarotta e aggiotaggio.

Nel 2008 Alitalia non c’è più, sopraffatta da 2 miliardi di euro di debiti: viene pilotato il suo fallimento, con tanti cari saluti a chi aveva investito i propri soldi nelle azioni dell’azienda. Al suo posto nasce una nuova società, depurata dai debiti, che finiscono, attraverso una cosiddetta “bad bank”, nella pancia dello Stato italiano. La nuova realtà viene acquistata da CAI, Compagnia Aerea Italiana, un surrogato di nomi ben noti, sia a livello imprenditoriale, sia – in alcuni casi – sul piano giudiziario: in testa al gruppo Roberto Colaninno, dietro le quinte Corrado Passera con Banca Intesa; in mezzo tanti personaggi che con l’aviazione hanno poco a che vedere, come i signori dell’edilizia Salvatore Ligresti e Carlo Toto, industriali del calibro di Emma Marcegaglia, Emilio Riva e Rocco Sabelli; ma anche gli Angelucci, padroni della sanità privata italiana, e quelli delle autostrade nostrane, Benetton e Gavio.

Sono i “Capitani coraggiosi”, subito prima del duo nazional-popolare composto da Baglioni e Morandi, molto dopo i protagonisti del romanzo di Rudyard Kipling. Un club eterogeneo voluto dal governo Berlusconi, che ha in comune tanti interessi, molti legati a doppio filo con quelli dello Stato. Il rilancio però è pura utopia: dopo l’euforia nazionalistica per aver scacciato quei cattivoni dei francesi, Alitalia “falcia” 2400 dipendenti senza ottenere risultati, anzi collezionando nuovi debiti. E parte la nuova picchiata.

Intanto Silvio Berlusconi ha perso la guida del Paese da un pezzo e lo Stato si ritrova di nuovo con il cerino in mano, costretto a metterci del suo mascherando il salvataggio attraverso l’intervento di Poste Italiane, che acquista il 19,5 percento delle azioni. In questa situazione precaria, riparte la caccia al partner commerciale: a farsi avanti è Etihad Airways, che propone una joint venture. Dopo una riflessione tra la compagnia, Cai, il governo e i creditori, si decide che gli emiri possano essere la scelta giusta e si iniziano le trattative, che terminano l’8 agosto 2014 con la firma dell’accordo sulla partnership. Cai resta azionista di maggioranza con il 51 percento, ma nei fatti è Etihad a tirare le fila del discorso. Nasce così la “New Alitalia” con un investimento di circa 560 milioni di euro da parte degli arabi, che riceve il via libera dalla Commissione europea, incaricata di valutare se l’operazione rispettasse le leggi antitrust dell’UE.

Il piano triennale di rilancio della compagnia, che nel frattempo ha cambiato nome diventando Alitalia – Società Aerea Italiana, prevede un ritorno all’utile per il 2017. Come è facile immaginare, l’obiettivo non è stato raggiunto: pur riducendo le perdite annuali, la società ha continuato a perdere qualcosa come 1 milione di euro al giorno. Per tentare un nuovo rilancio il management di Alitalia-SAI propone un accordo con i sindacati che prevede 980 esuberi: arriva l’intesa, che però non piace ai dipendenti dell’ex compagnia di bandiera che la rigettano con il 67 percento dei “No”. All’azienda, vista la precaria situazione economica, non resta che chiedere l’avvio della procedura di amministrazione controllata.

L’allora ministro per lo Sviluppo economico Carlo Calenda nomina tre commissari, Luigi Gubitosi, Enrico Laghi e Stefano Paleari, e lo Stato torna a immettere liquidità con un prestito ponte di 900 milioni di euro. Si devono cercare nuovi acquirenti, tentare di creare un’altra società che possa rilanciare nuovamente Alitalia e si prova la carta di Ferrovie dello Stato, chiamata a cercare nuovi partner tra le principali compagnie aeree. Passano i mesi, si va di rinvio in rinvio, si lascia il tempo a Fs di individuare uno o più partner per avviare l’ennesima operazione di salvataggio “pilotata”, neanche troppo velatamente, dal governo nazionale, in barba alle regole stabilite a livello europeo.

Si parla di un interesse di EasyJet, ma solo a patto che Alitalia venga “ristrutturata”, che al di fuori della terminologia burocratica, significa sforbiciare pesantemente il personale e ridurre al massimo le spese. Poi viene chiesto alla famiglia Benetton, attaccata dal governo Lega-5 Stelle sul fronte Autostrade per la tragedia del ponte Morandi a Genova, di metterci una pezza attraverso Atlantia, la società della famiglia trevigiana che gestisce, tramite AdR, gli aeroporti romani di Fiumicino e Ciampino. Nelle trattative entra anche l’americana Delta Airlines, che andrebbe così a formare il terzo nodo della cordata. Si va avanti gradualmente, ma non si arriva al dunque: i Benetton fanno sapere che non apprezzano il piano proposto da Ferrovie e Delta, ma dietro ci sarebbe un pressing sul nuovo governo sul fronte Autostrade. Per tutta risposta Fs torna a strizzare l’occhio a Lufthansa, la compagnia tedesca che da tempo sta alla finestra in attesa di capire come inserirsi nella trattativa.

In tutta questa confusione, la cordata a tre salta e si ritorna al punto di partenza. Siamo ormai ai giorni nostri: i tre commissari, Laghi, Paleari e Discepolo (che nel frattempo ha sostituito Gubitosi) concludono il loro mandato, sostituiti dal commissario unico Giuseppe Leongrande, noto nel settore per essere stato chiamato a salvare Blue Panorama Airlines. Leongrande dovrà traghettare Alitalia nei prossimi mesi e soprattutto “ristrutturarla”, con probabile annuncio di nuovi tagli. Lufthansa attende curiosa, ma non sembra intenzionata a rimetterci, e continua a parlare di una generica alleanza commerciale, senza che vengano fatti investimenti per comprare le azioni di Alitalia. Oppure potrebbe tentare un acquisto, però solo dopo che l’azienda verrà ripulita dai debiti e dai dipendenti in eccesso: ci vorrebbero almeno 18 mesi. Tutto questo tempo non c’è, la scadenza è fissata al 31 maggio 2020: intanto il governo ha approvato un nuovo prestito ponte da 400 milioni di euro che ha fatto infuriare la Commissione europea. Ma non c’è altra soluzione, i precedenti 900 milioni stanziati dal governo Gentiloni sono volati in cielo insieme agli aeroplani con la livrea tricolore. Alitalia per continuare a vivere deve essere finanziata da qualcuno. Tanto per cambiare, dallo Stato italiano, che negli ultimi 40 anni ha speso più di 9 miliardi di euro per mantenere a galla l’ex compagnia di bandiera. Il 2019 della compagnia si chiuderà con 600 milioni di perdite, 100 in più dello scorso anno. Vola Freccia, vola.

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