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Internet delle cose

Prendo in mano il mio smartphone e invio un’email di lavoro. Esco di casa, ma ho lasciato il riscaldamento acceso: fino a poco tempo fa sarei dovuto risalire e spegnerlo a mano, adesso però ho l’app dedicata sul cellulare, premo sullo schermo e il termostato scatta su “off”, i termosifoni iniziano a raffreddarsi. Zero fatica, zero perdite di tempo. Starò fuori tutto il giorno, ma non mi preoccupo.

Ho un gatto, è più abitudinario di me, se a mezzogiorno non mangia va fuori di testa. Per fortuna ho collegato la sua ciotola smart a internet e alle 12 in punto posso preparargli la sua dose quotidiana di crocchette. Di fame non morirà di sicuro. E poi devo fare la spesa al supermercato: cavolo… dimentico sempre di controllare cosa devo comprare prima di uscire. Ma che importa, il mio frigorifero di ultima generazione non mi lascia mai solo, è uno scatolone di metallo enorme e l’ho pagato oltre 1500 euro, però vuoi mettere la soddisfazione di chiedergli cosa mi conserva e quello che devo andare ad acquistare?

Infine la lavatrice, caricata a mano stamattina, ma pronta ad accendersi e a fare il suo dovere quando le dico io, stasera verso le 19. Questa è la mia routine, un delegare e impartire ordini di continuo, basta avere una connessione a internet decente e tanti oggetti, piccoli e grandi, intelligenti o “smart”, com’è di moda dire da qualche anno a questa parte. È il “miracolo” della domotica e, soprattuto, dell’Internet of things (IoT), l’internet delle cose. Una volta si collegavano alla rete solo i computer, poi sono arrivati i telefoni, le stampanti, i tablet. E alla fine gli oggetti più disparati: gli elettrodomestici, le auto, i macchinari industriali, quelli per l’assistenza sanitaria, i semafori, i lampioni lungo le nostre strade, le telecamere di sorveglianza.

Un mondo connesso e in continua crescita: la società di consulenza statunitense Bain ha stimato che il mercato dell’IoT nel 2017 ha generato un giro d’affari pari a 235 miliardi di dollari, ma nel 2021 questa cifra sarà più che raddoppiata, arrivando a toccare i 520 miliardi. Per dar vita a strumenti e oggetti che si collegano a internet, capaci di entrare in un network per comunicare tra loro – pur tra mille difficoltà legate ai differenti protocolli che utilizzano – c’è bisogno di investimenti enormi: non stupisce quindi che il paradiso di questo settore risieda negli Stati Uniti, in una lunga fascia che va dalla Silicon Valley a Seattle, vicino al confine con il Canada. Anche l’Europa Occidentale prova a tenere il passo, anche se il nostro continente predilige più acquistare il prodotto finito che pensare di svilupparlo. Il grande competitor degli Usa in questo settore non è europeo, ma asiatico.

La Cina è stato il primo Paese, nel 2010, a riconoscere il settore dell’IoT come uno dei segmenti-chiave della propria industria nazionale. In fin dei conti Pechino è ai ferri corti con Washington sul piano commerciale, non riesce a controllare le rotte marittime e quelle terrestri per arrivare all’Europa sono impervie, nonostante il faraonico progetto delle nuove “Vie della seta”. Non resta che affidarsi alla tecnologia, ai colossi come Huawei, ormai entrati stabilmente nelle case di tanti cittadini italiani, tedeschi, spagnoli, francesi e così via, con smartphone e altri prodotti per la casa.

E qui arrivano i primi problemi: cosa se ne fanno le grandi aziende di tutti i dati che, per amore o per forza, condividiamo con loro? Donald Trump ha un’idea molto precisa a riguardo: i dispositivi prodotti da aziende cinesi “ci spiano” e sono una minaccia per la sicurezza nazionale. Anche in Italia qualche domanda è giusto porsela: Huawei è tra i grandi marchi scelti per sperimentare il 5G, la quinta generazione di tecnologia di rete mobile che in Italia verrà lanciata quest’anno e che sarà fondamentale proprio per far funzionare al meglio i dispositivi IoT. I vertici dei servizi segreti, qualche mese fa, hanno chiesto al Copasir (Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica) di vigilare sull’operato di Huawei, anche dietro pressione statunitense. Non è un mistero che le aziende cinesi non siano esattamente indipendenti dal governo di Pechino, che può pretendere una stretta collaborazione da parte dei manager quando si tratta di raccogliere informazioni utili per monitorare gli utenti cinesi e stranieri.

Dall’altro lato, sarebbe sbagliato credere che in questo settore i “cattivi” siano solo quelli che mangiano ravioli al vapore e pollo alle mandorle. Meno di un anno fa, un’inchiesta di Bloomberg raccontava di un mondo ai più sconosciuto, quello di un team che registra e ascolta le conversazioni tra i possessori di altoparlanti marchiati Amazon e gli stessi dispositivi smart. L’azienda di Jeff Bezos ha risposto che l’unico obiettivo è quello di facilitare il processo di machine learning, con gli ingegneri che “aiutano” le macchine a riconoscere i timbri vocali delle persone. Qualche dubbio sul fatto che sia solo questo lo scopo forse ha senso averlo, ma comunque stiano le cose non è certo confortante sapere che da qualche parte nel mondo c’è chi mi registra mentre chiedo all’assistente vocale Alexa di mettermi la mia canzone preferita.

La sicurezza dei dati personali resta una delle più grandi barriere per l’adozione massiccia di questi strumenti tecnologi. La già citata ricerca di Bain sottolinea come la paura più grande di aziende e consumatori sia proprio quella di vedersi rubati dati sensibili o spiati per i fini più disparati. In effetti già oggi la maggior parte delle applicazioni che utilizziamo sullo smartphone, tracciano le nostre vite molto più di quello che desideriamo: i luoghi che visitiamo, i nostri ristoranti preferiti, le marche d’abbigliamento che acquistiamo con più frequenza. Spesso l’obiettivo non è spiarci per sapere quello che pensiamo, ma è molto più materiale, commerciale: più informazioni collezioni, più ne puoi vendere agli inserzionisti e alle grandi aziende che prediligono l’utilizzo di pubblicità targettizzate, costruite a misura di consumatore.

Avere il controllo delle nostre vite attraverso un piccolo schermo di pochi pollici è un sogno che l’uomo persegue da decenni, lo raccontano film, serie tv, cartoni animati. Ci stiamo arrivando a ritmi incredibili, con una crescita del settore che sfiora il 40 percento annuo. E le ricadute sono moltissime, non c’è solo la domotica. Il settore dell’assistenza sanitaria sta investendo moltissimo sui dispositivi IoT: ad esempio, persone con problemi cardiaci possono trasmettere in tempo reale i dati sul loro stato di salute al loro medico, una sperimentazione che sta avendo successo in alcune città americane. E se in questi ambiti la tecnologia può darci una mano a vivere meglio, può avere ancora senso ragionare su altre piccole azioni che abbiamo sempre fatto con il massimo della naturalezza e che oggi stiamo cominciando a delegare a sistemi tanto intelligenti quanto ancora troppo insicuri. È proprio in quel momento che mi fermo a guardare il lampadario del soggiorno e a domandarmi se ha senso rischiare di regalare un pizzico di privacy pur di non dovermi alzare dal divano per premere un interruttore.

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