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Dagli! Al coronavirus

La strada davanti era sempre libera; ma dietro le spalle sentiva il calpestìo e, più forti del calpestìo, quelle grida amare: – dàgli! dàgli! all’untore! – Non sapeva quando fossero per fermarsi; non vedeva dove si potrebbe mettere in salvo. L’ira divenne rabbia, l’angoscia si cangiò in disperazione; e, perso il lume degli occhi, mise mano al suo coltellaccio, lo sfoderò, si fermò su due piedi, voltò indietro il viso più torvo e più cagnesco che avesse fatto a’ suoi giorni; e, col braccio teso, brandendo in aria la lama luccicante, gridò: – chi ha cuore, venga avanti, canaglia! che l’ungerò io davvero con questo.

“I Promessi Sposi”, Alessandro Manzoni, 1827

Chi non conosce queste parole dei Promessi Sposi? Eppure quel virus non ha mai smesso di contagiare. I sintomi sono sempre gli stessi: il sospetto verso il diverso, il terrore che il contatto con l’altro minacci il nostro io, il desiderio di innalzare barriere fino in cielo, “muoiano a casa loro, che diamine!”.

Anche se poi casa loro è questa. “Ma dai, non scherziamo, se ne stanno sempre tra di loro, e poi con quelle facce gialle sono sempre sembrati un po’ malaticci”. Come no. Come noi siamo sempre sembrati un po’ stronzi, ben prima che arrivasse un virus a legittimare bassi istinti di protezione.

Allora ti reinventi virologo e scopri che i virus possono infettare anche altri virus, virus di virus. Leggi che si organizzano in colonie, che si moltiplicano sfruttando incoscientemente il corpo che li ospita, non gli importa che, se finiscono per ucciderlo, dovranno morire con lui.

Non sono poi tanto diversi da noi questi virus. Eccolo, l’altro: più ci fa schifo, più ci somiglia. È il nostro riflesso allo specchio, il nostro anti-corpo, che forse è qui proprio per debellare la malattia che noi siamo. Noi lo guardiamo e non vogliamo riconoscere noi stessi. E gridiamo giustamente: “Dàgli! Dàgli! All’untore!”.

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