Arrivano gli zombie
Quante volte vi è capitato di imbattervi, in tv, al cinema o su piattaforme in stile Netflix, in film apocalittici in cui l’umanità è seriamente minacciata da qualche malefico virus che uccide senza pietà o trasforma i malcapitati in zombie? Sarà che le storie un po’ perverse partorite dalle menti degli sceneggiatori hollywoodiani ci piacciono, l’idea masochista di vedere sterminata la popolazione mondiale stuzzica chissà quale recondito angolo del nostro cervello, sta di fatto che a seguire le notizie sugli organi di informazione italiani sembra si sia vicini a una pandemia non diversa da quelle rappresentate sul grande schermo.
Il coronavirus “cinese” (o 2019-nCoV) occupa pagine e pagine dei quotidiani (sul Corriere della Sera del 1° febbraio addirittura tredici), è la prima notizia nei tg, sempre in testa sui siti dei giornali nostrani. Catastrofismo, che spettacolo. Ma non si vuole certo negare l’esistenza del problema. Una ventina di giorni fa appariva nei tg qualche timida notizia di uno sconosciuto virus che a Wuhan, metropoli di 11 milioni di abitanti della Cina centrale, aveva contagiato e provocato la morte di alcuni abitanti. “Eccola che arriva”, il primo pensiero: l’ennesima Sars, l’ennesima influenza aviaria. Ovviamente non poteva che andare in quel modo, è un virus e fa il suo lavoro, prolifera. Poco importa che il tasso di mortalità sia del 2 percento, muoiono cioè due persone su cento che se ne ammalano: ormai è deciso, il 2019-nCoV deve essere la bestia nera d’inizio decennio. Dire che spesso chi muore è già debilitato da altre patologie ben più gravi, un po’ come nel caso dell’influenza stagionale, non serve a nulla.
La paura fa fare cose stupide, tipo trattare tutti i cinesi del mondo come appestati, portatori di chissà quale terribile malattia. Come se il sarto sotto casa, che vi fa l’orlo ai pantaloni per 5 euro e dal quale tornerete presto perché è conveniente, avesse qualche colpa se in un mercato del pesce a 8500 chilometri di distanza ha iniziato a diffondersi un virus che nessuno conosce. Peggio di chi non usa il cervello di cui è stato dotato c’è solo chi lo usa per fare propaganda. Non facciamo nomi, tanto lo conoscete. Pensare di sigillare a tempo indeterminato un Paese che conta un miliardo e 400mila abitanti risulta difficile, soprattutto perché quel Paese ha smesso di avere connotazioni comuniste da un pezzo ed è diventato il primo esportatore mondiale. E poi questo virus è minuscolo, microscopico, mica puoi bloccarlo su una bagnarola al largo del Mediterraneo e rispedirlo indietro.
Per chi fosse abbastanza masochista o libero da impegni, la John Hopkins University di Baltimora ha realizzato una mappa del contagio che viene aggiornata in tempo reale. Ci si trova di tutto, dal numero di persone che si sono ammalate, quante non ce l’hanno fatta e quante sono già uscite dagli ospedali sulle proprie gambe. Nella zona di Wuhan, su oltre 9mila casi accertati al 2 febbraio, i decessi sono stati poco meno di 300, mentre sono 215 le persone dichiarate guarite. I virologi sostengono che ogni malato può arrivare a infettare altre due o tre persone sane, lo stesso numero di chi prende la classica influenza stagionale e, per amore o per forza, non può restare a casa e curarsi senza far girellare il virus nei mezzi pubblici o nei locali affollati di gente.
Vivendo in un’epoca in cui per ogni problema c’è bisogno sempre di una soluzione immediata, il coronavirus, come altre epidemie nel recente passato – dalla Sars all’ebola passando per l’influenza aviaria – rappresenta uno shock: non c’è ancora una cura, un vaccino (ma presto arriverà, se la sperimentazione andrà a buon fine), qualcosa da comprare su Amazon, su Ebay, su Alibaba. A parte le mascherine, quelle prodotte a Wuhan, poi, sono il massimo per chi crede nell’ironia.