Le allettanti promesse del fagiano
Da un mese non vado in paese. Non vado in ufficio. Lavoro da casa. Scrivo, cucino, sto al pc, ascolto audiolibri, cammino nel cortile intorno a casa, guardo la tv.
Sto troppo al pc.
I casi della vita mi hanno portato a trascorrere questo periodo in aperta campagna. La fortuna nella sfortuna, dico a me stesso.
Gli uccelli fanno da colonna sonora allo scorrere dei giorni. Passa qualche macchina ogni tanto. Con la mia ragazza prendiamo il caffè sui gradini, ogni giorno dopo pranzo. Piedi al sole. Ci teniamo per mano, ridiamo, ci baciamo. Giochiamo a carte.
Vediamo giusto qualche audace camminatore che percorre ancora a piedi la strada. Ultimamente sono davvero pochi. Una ragazza col labrador lo fa quasi tutti i giorni, la più intrepida.
Un maschio di fagiano ci fa visita mattina e pomeriggio. In realtà è lui il padrone di casa, noi siamo solo ospiti indesiderati. Corre via non appena mettiamo piede sull’uscio.
Fino al mese scorso non vivevamo davvero questo luogo. Colazione, via di corsa verso il lavoro, rientro al tramonto. Certo, un posto comunque meritevole, la campagna. Ma fino a che non è venuta la quarantena – o meglio le misure di restrizione sociale (parole fino a poco fa riservate più a libri di sociologia che alla vita vera) – non ci eravamo davvero resi conto di quale fosse lo spazio in cui ci muovevamo.
Il rumore del vento. Il profumo dell’erba. Non soffro di allergia da mesi, da quando ho lasciato Roma, lo scorso autunno. Respiro.
Lo stress del timbrare in tempo il cartellino è ricordo sbiadito. Non mi manca niente della vita di prima. Nella vita di adesso ci sono le lucertole al sole, le foglie che si muovono al ritmo del vento. La cornacchia sull’albero. La lepre che corre spaventata in mezzo al campo.
«Nel mondo che vedo uno si muove con gli alci, tra le umide foreste dei canyon intorno alle rovine del Rockefeller Center. Indosserà abiti di pelle che gli dureranno per tutta la vita. Si arrampicherà per le liane che avvolgono la Sears Tower. E quando guarderà giù vedrà minuscole figure che pestano granturco e posano strisce di carne di cervo sulla carreggiata vuota di qualche superstrada abbandonata».
Il Fight Club è oggi, è ora più che mai.
Infrangiamo la regola, parliamo del Fight Club. La nostra generazione è cresciuta nell’immaginario del film apocalittico. Independence Day, Virus letale, The day after tomorrow. L’intera programmazione di Italia 1 ci ha preparato a questo momento, ci ha allenato per l’oggi!
Senza più lavoro, senza prospettive di pensione, senza famiglia. Lo stato sociale al collasso non deve farci paura. Non più di ieri.
Quale miglior occasione per ripensare il futuro: un virus, una quarantena senza fine. Due giorni, tre settimane, un mese, due mesi. Le prospettive si espandono, l’illusione di un possibile ritorno alla normalità. “Non torneremo alla normalità, la normalità era il problema” è uno dei motti contestatari del momento. Sui social, tutti rivoluzionari. Poi il libro new-age su Amazon lo compriamo lo stesso.
Non credo che cambierà qualcosa dopo questa quarantena. Ho accumulato troppo pessimismo in questi anni di prospettive limitate, di affanno del quotidiano, di ricerca del lavoro precario. Le allettanti promesse del nuovo millennio.
O forse sì. Forse il richiamo della foresta, il richiamo del fagiano ci scuoterà tutti. Davvero faremo tesoro di questo tempo recuperato, di questi giorni finalmente vissuti.
E quando ci proporranno il nuovo stage, la nuova collaborazione sottopagata, l’ora spesa in metro o nel traffico, saremo sicuramente in grado di rispondere: «No non mi va, preferisco restare qua».
Sicuramente. Forse.