Il Deca – Fenomeni
E poi il fischio dell’arbitro e tutti che impazziscono e in quei minuti che seguono tu sei al centro del mondo, e il fatto che per te è così importante, che il casino che hai fatto è stato un momento cruciale in tutto questo rende la cosa speciale, perché sei stato decisivo come e quanto i giocatori, e se tu non ci fossi stato a chi fregherebbe niente del calcio? E la cosa stupenda è che tutto questo si ripete continuamente, c’è sempre un’altra stagione. Se perdi la finale di coppa in maggio puoi sempre aspettare il terzo turno in gennaio, che male c’è in questo?
Anzi, è piuttosto confortante, se ci pensi.
(Febbre a 90°, di David Evans, 1997)
Riflessioni decaffeinate, buone anche per i deboli di cuore
1/10. 10, decimo Deca. Dici dieci e pensi alla perfezione: il voto massimo che puoi prendere a scuola, ma anche il numero perfetto per Pitagora, oppure i comandamenti che Dio diede a Mosè sul Monte Sinai. Se invece siete appassionati di calcio il dieci non potete non associarlo al miglior giocatore della squadra, al talento naturale, al fantasista. Insomma, al fenomeno. Da Pelé in avanti, che nel 1958 lo indossò sulla maglia verdeoro della Nazionale brasiliana durante i Mondiali in Svezia, il 10 è diventato il numero più ambito, uno status symbol che ha generato miti e leggende e che continua a far sognare. Per chi fosse cultore della materia, Alessio Dimartino ha curato qualche anno fa un agile volume dal titolo “Da Antognoni a Zico, i più grandi numeri dieci della storia” (Perrone Editore).
2/10. Tra questi, uno dei 10 più importanti ed emblematici di sempre (non ce ne vogliano i tifosi laziali…) è Francesco Totti. Ultima vera “bandiera”, ha vestito la maglia di un’unica squadra, la Roma, di cui è stato capitano dal 1998 fino al suo ritiro nel 2017 e – sempre a partire dal ‘98 (prima gestione Zeman) – ha vestito la maglia numero 10. La sua carriera, così come il suo addio al calcio hanno qualcosa di unico, di eccezionale. “Speravo de morì prima” è uno striscione comparso sugli spalti il giorno del suo addio. Frase rimasta impressa nella memoria di tifosi e non, perché in grado di descrivere l’attaccamento di tutta una città (fetta giallorossa) a un giocatore. “Speravo de morì prima” è anche il titolo (provvisorio, si legge qua) di una nuova serie-tv, targata Sky, che nei giorni scorsi è stata sponsorizzata su Facebook e che siamo sicuri farà parlare di sé, nel bene e nel male.
3/10. Non tutti i dieci però riescono col buco! Qualche defaillance può capitare nell’affidare un numero così delicato a un giocatore che magari si rivela fenomeno sì, ma in tutt’altro senso. Pensi al 10 e subito si staglia nella mente degli appassionati la maglia azzurra del Napoli indossata da uno degli sportivi più iconici del XX secolo, Diego Armando Maradona. In pochi ricordano però la tremenda avventura di suo fratello Hugo, passato senza lasciare traccia ad Ascoli nella stagione 1987-88: “Può diventare più forte di me”, disse il ‘Pibe de Oro’, che fece grande pressione sui dirigenti napoletani per convincerli a portarlo in Italia e girarlo in prestito a un’altra società. In realtà la carriera italiana del fratello minore del ‘Diez’ durò appena un anno, 13 presenze con la maglia bianconera dei marchigiani, nessun gol. Fenomeno sì, ma nella raccomandazione.
4/10. Chi non ha mai avuto bisogno di raccomandazioni particolari è Ronaldo Luís Nazário de Lima, soprannominato non a caso dai suoi connazionali brasiliani ‘O Fenômeno’. A celebrarlo ci pensa SportWeek, il settimanale della Gazzetta dello Sport che festeggia l’uscita in edicola del numero 1000 dedicando la copertina al due volte Pallone d’oro, proprio come fece vent’anni fa con il primo numero.
Il magazine della ‘Rosea’ viene da un periodo di restyling, ma nonostante i tumulti del mondo dell’editoria rimane un punto di riferimento per gli appassionati di sport, tanto da far registrare un aumento dei lettori.
5/10. Non solo calcio. Parli di fenomeni, parli di tutti gli sport, parli di Nike…parli di pubblicità che sono dei piccoli capolavori. L’ultimo in ordine di tempo: You can’t stop us (non puoi fermarci). Un montaggio notevole, che mixa in una stessa immagine i campioni di discipline diverse come fossero una sola persona, in un unico gesto atletico. Il tutto condito dal consueto testo emozionale – che funziona ancora di più in epoche pandemiche e di rivolte sociali in stile #BLM – come nella migliore delle tradizioni Nike commercial: “Non siamo mai da soli, e questa è la nostra forza”.
Oltre lo sport.
6/10. A funzionare sempre meno, anche in un paese dove tutto è possibile come gli Stati Uniti, sono gli apprezzamenti via social da parte di Donald Trump a “fenomeni” che fanno parlare di sé non per le qualità sportive ma per le castronerie che dicono. L’ultima in ordine di tempo è Stella Immanuel: origini camerunensi, registrata come ‘physician’ (cioè medico) nello Stato del Texas, è convinta sostenitrice dell’idrossiclorochina come rimedio al coronavirus. Trump, che da tempo afferma che l’antimalarico sia un toccasana per i malati di Covid-19, non ci ha pensato due volte e ha ritwittato un video della dottoressa, nota anche per essere la fondatrice di una piattaforma religiosa denominata ‘Fire Power Ministries’. In più di un’occasione ha dichiarato che l’infertilità femminile e malattie come l’endometriosi siano causate dal sesso fatto con demoni e streghe nei sogni o che i ricercatori stiano studiando un vaccino per impedire alle persone di diventare religiose. Un po’ troppo anche per social aperti a qualunque follia come Facebook e Twitter, che hanno iniziato a cancellare i video dei suoi sproloqui. La cosa non è andata giù alla Immanuel che ha ‘minacciato’ il social di Zuckerberg: se non ripristinerà i video eliminati Gesù Cristo distruggerà i server di Facebook. Nel suo sito la Bbc ha commentato con tipica ironia ‘british’: “Facebook – si legge – non ha riportato interruzioni nel servizio”.
7/10. Non siamo certo ai livelli della dottoressa Immanuel ma fenomenale, a modo suo, è anche un articolo a firma del professor Ernesto Galli della Loggia, docente universitario, editorialista di lungo corso del Corriere della Sera, il più prestigioso dei quotidiani italiani. Nei giorni scorsi ha scritto un commento riguardante un tema che la pandemia ripropone “con ancora maggiore urgenza”: le periferie, nuovamente accantonate dall’agenda politica e “luogo dove si addensa il potenziale di un inedito conflitto sociale”. Tema che ha tutta una sua dignità e attualità e che, proprio per questo richiederebbe analisi approfondite, così come ricerche e studi fatti sul campo. Invece, il pezzo di Galli della Loggia cade in un fenomeno tristemente già visto: le chiacchiere, lo stereotipo, la predica dal pulpito. Un passaggio in particolare ha destato stupore, quello in cui Galli della Loggia si chiede da dove provengano le “turbe di giovani” che “al calar d’ogni sera (…) si rovesciano nelle piazze, nei centri storici delle città, e sembrano farlo come posseduti da un desiderio di rivalsa” mossi dal “torbido proposito di seminare il contagio, d’infettare la società «per bene» (…) Di distruggere quanto non possono avere”. Capolavoro, che non ha bisogno di tanti commenti. Anzi no. Ne scegliamo due: Guido Vitiello che sul Foglio si domanda se abbia senso che le grandi firme si accaniscano “a commentare con sempre più pressappochismo e supponenza un mondo che hanno smesso di capire molto tempo fa, e che neppure sembra incuriosirli granché”. E Simone Cosimi, che su Wired si chiede come sia possibile che tali commenti finiscano sulla prima pagina del più autorevole quotidiano italiano: “Altro che cancel culture: in Italia finisce nero su bianco il primo rigurgito che ci scappa sulla tastiera”.
8/10. C’è invece qualcun altro che con la comunicazione e la divulgazione ci sa fare davvero. Un fenomeno tutto particolare, inteso sia come “persona singolare, fuori del comune, che desta meraviglia per qualità eccezionali”, sia come “fatto o evento, provocato o spontaneo, ma comunque suscettibile di osservazione e di studio” (per queste e altre definizioni di Fenomeno, vedi Treccani). Stiamo parlando di Alessandro Barbero, professore torinese, storico medievalista, autore di libri e vincitore del premio strega nel 1996, divulgatore a 360°. Dal 2007 è ospite fisso a SuperQuark nella rubrica che attualmente si chiama Dietro le quinte della storia, in cui assieme a Piero Angela in pochi minuti sviscera un tema, che spesso ruota intorno a guerre, catastrofi di vario genere (vedi epidemie/pandemie), con tono sempre allegro e con aneddoti ficcanti che riescono a coinvolgere anche lo spettatore più distratto. Da qualche mese, su Spotify, è di tendenza “Il podcast di Alessandro Barbero”, una raccolta pressoché sconfinata di sue lezioni e interventi a convegni, festival, etc. Il Post ricostruisce la storia del prof. Barbero, e definisce come non affatto casuale il successo dei suoi podcast e video, in quanto “frutto di un lavoro di divulgazione quasi trentennale e del suo eccezionale talento narrativo, oltre che dell’assenza di prodotti simili in lingua italiana”
9/10. Chi, invece dei podcast in streaming, continua a preferire la cara “vecchia” radio, avrà di certo notato la campagna “I love my radio” lanciata dalle principali emittenti nazionali per festeggiare i 45 anni della Radio italiana. È nata come reazione patriottica e nostalgica alla crisi Covid-19: una gara tra i pezzi simbolo di ciascuna annata per decretare “la canzone più amata degli ultimi 45 anni” (è stato possibile votare fino al 31 luglio e nei prossimi giorni scopriremo il vincitore). Piatto forte del progetto – di cui avremmo però volentieri fatto a meno – sono le 10 cover di brani storici, rielaborata da alcuni artisti di punta di oggi. È la cover-mania. Qui un pezzo spassoso di Claudio Todesco su Rolling Stone in cui si demolisce un fenomeno che – sull’onda dei talent show – ormai avvinghia la produzione musicale nazionale.
10/10. Dopo tanto rumore per nulla è il caso di rifarci le orecchie. Ormai è trascorso quasi un mese da quando ci ha lasciato. Fuori tempo massimo, il nostro saluto al Maestro. Il Deca dedicato ai fenomeni non poteva che chiudersi con un pensiero a Ennio Morricone.
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