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Tunisia. Rap, social e piazze: “Così abbiamo vinto la paura”

Migliaia di braccia verso al cielo. Un unico movimento ripetuto: avanti e indietro, avanti e indietro. Lo scandisce un coro: “Dégage!” (“Vattene”). La coreografia della rivoluzione tunisina il 14 gennaio 2011 è al suo atto finale. O forse all’inizio.
Ad Avenue Bourguiba, nel cuore di Tunisi, sfilano donne, uomini, giovani, anziani. Avvocati, operai, disoccupati. Tutta la Tunisia è in piazza e sventola la sua bandiera. Le braccia indicano la sede del ministero dell’Interno, simbolo dei soprusi perpetrati da una polizia che da vent’anni è la mano dura del presidente Ben Ali. E’ proprio a lui che il popolo sta gridando di andare via.

Sotto il regime di Ben Ali nessuno parlava, tutti sapevano che anche i muri avevano le orecchie. Se dicevi qualcosa di scomodo non si andava a ripercuotere solo su di te, ma anche sulla tua famiglia”, racconta Hassen Ayari, che in quegli anni è studente alla facoltà di Tecnologia della comunicazione, a Tunisi. “Anche all’università per non avere problemi non si faceva alcun tipo di dibattito. Le spie del regime erano ovunque. Al massimo si parlava di sport, ma mai di politica o dei problemi del Paese. Quello era un tabù”.
Anche Hassen quel giorno è in piazza, a chiedere libertà di espressione e dignità per un popolo umiliato. La Tunisia è in fiamme da quasi un mese. La scintilla è partita il 17 dicembre 2010 a Sidi Bouzid, cittadina dell’entroterra soffocato da povertà e disoccupazione. Qui, Mohamed Bouazizi, 26 anni, venditore ambulante, ha tentato il suicidio dandosi fuoco tra le grida disperate dei passanti. Quella mattina la polizia locale gli aveva sequestrato per l’ennesima volta la merce, con la motivazione ufficiale di non possedere la licenza per vendere. “Un pezzo di carta difficile da ottenere senza l’amicizia di un membro del partito del Presidente Ben Ali, l’Rcd (Raggruppamento Costituzionale Democratico, ndr)”, spiega Hassen.
Prima di Mohamed Bouazizi, altri giovani si erano rivolti alle fiamme per mettere fine ad anni di soprusi e disperazione. Una via di fuga dalla vita nelle regioni del centro e del sud della Tunisia, ricche di fosfati eppure con il tasso più alto di disoccupazione. Il bacino minerario di Gafsa, poco distante da Sidi Bouzid, già nel 2008 era stato teatro di scontri violenti tra i precari locali e la polizia. Proteste represse duramente per anni e condannate a rimanere entro i confini locali. In tv, alla radio, sui giornali si parla solo degli appuntamenti istituzionali del Presidente e di sua moglie, Leila Trabelsi, dipinta come benefattrice e paladina del terzo settore.

Quando nel dicembre 2010 il giovane ambulante si dà fuoco, le piazze di Sidi Bouzid e delle città limitrofe si popolano di dimostranti, sindacalisti, cittadini comuni. Chiedono lavoro e dignità. Le proteste si espandono a macchia d’olio fino a raggiungere la città di Menzel Bouazaine, dove si contano i primi morti per mano della polizia. “Quello che ci ha spinti a scendere in piazza anche nella lontana Tunisi è stato il fatto che grazie a Facebook abbiamo visto tutta la violenza delle forze dell’ordine. Vedi gli spari, vedi i tuoi connazionali sanguinanti a terra. Ci siamo chiesti: fino a quando possiamo continuare ad accettare tutto questo?”, continua Hassen. In una Tunisia sotto costante controllo, Twitter e Facebook sfuggono alla censura di Stato. Anche il Nord del Paese si sveglia, le periferie di Tunisi e Sfax bruciano. La morte di Bouazizi, il 4 gennaio, porta migliaia di persone in piazza. “Ci mettevamo d’accordo in chat con alcune frasi in codice: ‘Ci vediamo lì alle tre per prendere un caffè?’, scrivevamo. In realtà ci stavamo dando appuntamento per manifestare e per andare a incendiare le caserme, i municipi e le sedi del partito del Presidente”.

Un paese umiliato sta alzando la testa. A soffiare sul fuoco sono i video degli scontri caricati in tempo reale sui social e la musica, quella del rap engagé che dagli scantinati urla la rabbia del popolo ed esplode nelle piazze virtuali. Una canzone su tutte, diventa la colonna sonora delle manifestazioni: Rais le bled(“Presidente”) del rapper Hameda Ben Amor, in arte El Général. Il brano era uscito un mese prima, il 7 novembre 2010: giorno dell’anniversario della presa di potere di Ben Ali, ricordata dagli storici come “colpo di Stato medico” perché avvenuta tramite la dichiarazione di insanità mentale del suo predecessore Habib Bourguiba, il 7 novembre 1987.

Presidente, oggi parlo con te
nel nome mio e nel nome di tutto il popolo,
un popolo che vive nel dolore ancora nel 2011.
C’è ancora gente che muore di fame.
Vogliono lavorare, vogliono sopravvivere,
ma nessuno ascolta la loro voce!
Scendi in strada e guarda!
La gente sta impazzendo e i poliziotti diventano mostri,
ormai sanno usare solo i manganelli,
tac tac,
non gliene importa,
tanto non c’è nessuno pronto a dire no.

Dalla canzone “Rais le bled” di El Général



El Général si rivolge direttamente al Presidente e il Presidente risponde. “Proprio nella notte della pubblicazione della mia canzone, il mio account Facebook è stato chiuso e da quel momento ho capito che il mio telefono era sotto intercettazione”, racconta il rapper. “Hanno cominciato a limitare il mio raggio di azione fino ad arrivare ai primi giorni del gennaio 2011, quando sono venuti a prendermi: lì è iniziato il grande viaggio”. Il viaggio di cui parla El Général ha come destinazione il carcere, dove insieme a lui finiscono attivisti e dimostranti.
Ma ormai il regime ha troppi occhi addosso: quelli del suo popolo e della comunità internazionale. Ogni giorno, dal Qatar, Al Jazeera riporta in tutto il mondo quei fatti che i media tunisini non possono raccontare.
Il 13 gennaio 2011 Ben Ali va in tv per rivolgere un appello alla nazione, per la prima volta abbandona l’arabo classico e parla in dialetto tunisino, cercando la vicinanza di un popolo ormai sordo: “Vi ho tutti compresi. Vi darò libertà di espressione, più lavoro e nuove elezioni a cui non mi ricandiderò. Non permetterò che altri connazionali muoiano”.
E’ troppo tardi. Il giorno seguente un fiume in piena invade la via principale di Tunisi, Avenue Bourguiba. Ora anche la polizia ha paura. “Solo davanti al ministero dell’Interno c’erano 14mila persone”, racconta  Rabii Brahim, attore e attivista che oggi vive a Milano. “La gente per vent’anni non ha mai osato avvicinarsi a quel luogo, simbolo della dittatura. Quel giorno vedevi i cittadini arrampicati sulle finestre. E i poliziotti dall’altra parte a piangere dalla paura. In quel momento abbiamo tutti capito che quel simbolo si era rotto”.    


Da dietro le inferriate del ministero dell’Interno e delle caserme, i poliziotti si sentono in prigione. Tra loro c’è anche Karim, nome di fantasia, che oggi vive in Italia con la moglie. “Il 14 gennaio è stata una giornata terribile. Da giorni dormivo insieme ai miei colleghi nelle caserme perché venivano continuamente prese d’assalto. Dovevamo impedire che la gente si impossessasse delle armi per tentare di preservare l’ordine pubblico”. Karim nel gennaio 2011 è appena entrato in polizia. “Eravamo schiacciati dalla folla che veniva verso la mia caserma. Sono scappato con nove armi addosso. Non avevo ancora il tesserino della polizia e se mi avessero fermato con tutte quelle pistole, avrei fatto una brutta fine”.

Il fiume è inarrestabile. I manganelli e i lacrimogeni non bastano più. Il grido “dégage” arriva al suo destinatario. “Ci aspettavamo tutto ma non che Ben Ali scappasse. Era sera, ero appena tornato a casa, i miei vestiti erano ancora impregnati dell’odore dei lacrimogeni della polizia – racconta l’attivista Rabii – Stavo facendo la doccia quando il primo ministro Mohamed Ghannouchi ha annunciato in tv che Ben Ali si trovava temporaneamente fuori dal Paese e che lui avrebbe assunto le sue funzioni. Ricordo che sono mi fermato sulla parola ‘temporaneamente’. Cosa vuol dire? Che può tornare? Ma poi abbiamo capito che la sua era una fuga”.
La sera del 14 gennaio 2011, dopo ventitré anni al potere, il presidente tunisino Ben Ali vola insieme alla sua famiglia verso l’Arabia Saudita. Dove resterà fino al giorno della sua morte, il 19 settembre 2019.

Il vento delle proteste poche settimane dopo infiamma anche le piazze di Egitto, Libia, Siria, Yemen. Rivoluzioni con epiloghi diversi, alcuni non ancora definiti, e una richiesta comune di “lavoro, dignità e libertà” da popoli oppressi dalle dittature.

Dieci anni dopo, la Tunisia è un paese libero. Con una nuova Costituzione che garantisce ai cittadini la totale libertà di espressione e di voto. L’unico esempio di democrazia pluralistica,  tra i paesi incendiati dalle cosiddette “primavere arabe”, che è valso alla nazione il Nobel per la pace nel 2015.
Le gigantografie di Ben Ali sono scomparse dalle strade di Tunisi, al loro posto fioriscono giornali indipendenti, collettivi, associazioni per la tutela dei diritti umani. Nei caffè e nelle università nessuno ha paura di dire la sua.  Ma i problemi economici e sociali sono anche peggiori di quelli di dieci anni fa, con un tasso di disoccupazione giovanile che supera il 35%. A soffrire è anche il settore turistico, prima industria del Paese, piegato dagli attacchi terroristici del 2015 e strozzato dalla diffusione del Covid-19. Nell’entroterra si continua a manifestare, la richiesta è sempre quella dei martiri della rivoluzione: un po’ di lavoro per evitare di abbandonare il Paese, o la vita. La classe politica della neonata era democratica sembra ancora troppo instabile e inesperta per guidare il paese fuori dalla crisi. “Adesso finalmente siamo liberi di parlare – conclude il rapper El Général – Ma non è detto che ci stiano ad ascoltare”. La strada è lunga. La rivoluzione, il 14 gennaio 2011, era al suo atto finale o forse solo all’inizio.

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“È solo l’errore che ha bisogno del sostegno del governo. La verità può esistere da sola”. Lo diceva Thomas Jefferson, uno dei quattro faccioni sul monte Rushmore, uno dei padri fondatori del participio passato Stati Uniti d’America.

E forse è stato così. Ma non oggi. Oggi una verità non può più esistere da sola, neanche se è lo stesso governo a sostenerla. C’è bisogno di qualcun altro che la giudichi tale, qualcuno che abbia il potere su tutte le nostre verità che crediamo di serbare in tasca.

Costui non solo discerne il vero dal falso, ma ha capacità precognitive e fiuta il pericolo. E fortunatamente ci salva. Così, mentre l’America discute se sia il caso di procedere a rimozione o impeachment del presidente degli Stati Uniti Donald Trump, il presidente della verità e del pericolo Mark Zuckerberg ha già deciso di bloccarlo su Facebook e Instagram.

Che sia giusto o no può saperlo solo chi detiene la verità, chi sa riconoscere il falso e il rischio che comporta. A noialtri è concessa solo qualche ingenua filosofia sulla verità.

Noi che pensavamo che il “vero” fosse l’”intiero”. Perché è vero che chi mente dice il falso, ma è altrettanto vero che il mentitore è vero, in quanto reale, come è reale la sua menzogna. E non è vero un candido mondo senza menzogna, sarebbe anzi la più grande delle menzogne. Ma questa è filosofia spicciola per chi sa la verità.

E a casa di chi sa la verità, quella casa globale dentro la quale siamo finiti tutti in affitto, bisogna dire solo la verità. Ma quanti inquilini manterranno il permesso di soggiorno? Non c’è niente di più vero di un vecchio detto inglese: i bambini, gli sciocchi e gli ubriachi dicono la verità.

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