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Ich bin Union Berlin

Lo sentite? Questo è il rumore che fa la felicità. E quella in questione è provocata dalla promozione in Bundesliga, la lega più alta del campionato di calcio tedesco, di una squadra che ha fatto la storia. Ma non per le coppe vinte. 

Parliamo dell’Union Berlin. Il club nasce nella capitale tedesca nel 1906. Ha una storia sfortunata, cambia negli anni decine di nomi e altrettanti proprietari. Negli anni Venti era chiamata “l’unione di ferro” e i suoi “i ragazzi metalmeccanici” per quel completo blu con cui la squadra scendeva in campo che ricordava quello degli operai. 

Nel secondo dopoguerra, quando la Berlino divisa dal muro contava due città, l’Union Berlin militava nelle squadre della Germania dell’est ed era considerata la squadra della ribellione, la squadra proletaria di Berlino est: la sua rivale era la vincente Dynamo Berlino. l’Union era la squadra del popolo che cercava di contrapporsi allo strapotere della Dynamo, sempre ad est della città ma considerata la squadra della Stasi, l’organizzazione di sicurezza e spionaggio della Repubblica Democratica Tedesca. 

Il filo rosso che impreziosisce la storia della squadra è il legame con la sua tifoseria. Un legame viscerale che ancora oggi la contraddistingue. Tutte le squadre di calcio hanno i loro tifosi, ma che succede quando i tifosi diventano di fatto i proprietari della squadra?

La premessa è che in Germania vige la legge del “50+1”: le quote di maggioranza dei club non sono di un unico soggetto ma devono essere, in parte, di proprietà di tifosi e sostenitori. Nell’Union Berlin, però, tutte le quote sono in mano ai supporters: tutti i soci contano allo stesso modo. Presidente compreso.

“L’Union Berlin sono io, io e altre 12mila persone”, spiega orgogliosamente un tifoso. E così a salvare a più riprese negli anni l’Union Berlin dal fallimento è stata proprio la sua tifoseria. L’ultima volta è successo nel 2004, con i tifosi protagonisti di un gesto a dir poco eclatante.

“Noi tifosi abbiamo donato il sangue”. I soldi ricevuti dalle donazioni del sangue venivano subito girati alla società: così i tifosi hanno salvato la loro squadra.

Ma non è finita qui. Perché nel 2009, promossi in seconda Bundesliga – la nostra serie B – hanno ristrutturato il loro vecchio stadio nel quartiere di Köpenick. Stanchi di aspettare i finanziamenti del comune, promessi e mai arrivati, si sono rimboccati le maniche – letteralmente – e hanno rimesso a nuovo l’impianto sportivo. 

“Dovevamo ristrutturare l’impianto sportivo”, dice un tifoso. Non solo tifosi carpentieri o artigiani, tanti i volontari del cemento che hanno speso le loro ore libere per rifare lo stadio. Il loro stadio. 140mila ore di lavoro, gratis. Una volta finito, hanno festeggiato con un derby con l’altra squadra di Berlino, l’Hertha, sulla cui erba verde avevano giocato per anni quando il loro stadio era ancora malmesso. 5 a 3 per l’Hertha ma la vittoria è tutta per l’Union Berlin e per quell’impianto rinato grazie al loro attaccamento alla squadra. 

Secondi a chi? Secondi a tutti i club europei che alle spalle hanno multinazionali e gruppi di imprenditori con le tasche gonfie. Secondi rispetto a un’idea di calcio che è tanto, troppo business. 

Fuori dallo stadio si erge un monumento: una stele di ferro con un grande elmetto da operaio con sopra incisi i nomi e soprannomi dei circa duemila tifosi-volontari che hanno ristrutturato l’impianto. È rosso, l’elmetto, come i colori dell’Union Berlin, come il sangue versato per il loro amore più grande: la squadra di calcio proletaria più anticonformista della storia dei club.

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