Partigiani d’inverno
Un diario per Sofia
10 maggio 2020. Festa della mamma. “Cara Sofia, sono passati tanti giorni ormai da quando ho pensato di iniziare a scriverti. Forse già un paio di mesi. Oggi il pensiero di te si fa più forte qui tra noi, nella nostra casa, nella nostra famiglia, nel mio esserti madre. Così, penso che oggi sia proprio il momento opportuno: sono passati tanti eventi e momenti importanti, insieme a tanta ordinaria quotidianità, da quando ci ha raggiunto la notizia del tuo arrivo. Dovevamo già essere insieme, a costruire pian piano la nostra famiglia, e invece siamo ancora lontane, separate per chissà quanto tempo ancora, sicuramente finché durerà questa pandemia: un tempo impazzito e difficile da decifrare. Per noi, doloroso.”
La penna che corre lentamente sulla carta spessa delle pagine dell’album è l’unico suono della casa. Tutto il resto tace. Cecilia è sola, china sulla scrivania del suo studio. Trasforma i pensieri in parole da regalare a sua figlia, che ancora non ha mai conosciuto. Accompagna con delle fotografie il racconto di un presente che la bambina scoprirà quando sarà già passato da tempo. “È un diario che le lascerò e che comprenderà quando sarà più grande. Sarà importante per lei ricostruire questo tempo che ora ci sembra perso, perché non siamo insieme, un tempo in cui noi sappiamo che lei c’è, ma lei non sa che ci siamo noi”.
Sofia, nome di fantasia, è una bambina malgascia di 4 anni. A gennaio 2020 il suo fascicolo è arrivato a casa di Cecilia e Luca, coppia perugina di 38 anni, lei educatrice, lui insegnante di Lettere al liceo. Avrebbero dovuto incontrarsi a fine marzo, in Madagascar, stare insieme per tre mesi e insieme ritornare in Italia. Ma la pandemia da Coronavirus è riuscita ad allungare questa “gestazione” iniziata più di quattro anni fa, quando i due hanno deciso di imboccare di nuovo il cammino dell’adozione, facendo tappa al tribunale dei minori di Perugia. Ormai erano passati quasi due anni da quel settembre 2014, quando erano tornati a casa con il loro Matteo.
“Ci sentiamo come un partigiano d’inverno, siamo di fronte a un’attesa cieca” dice Luca. “Nessuno sa fare una previsione di quando riapriranno le frontiere, è un momento molto duro, noi eravamo già partiti con il cuore e con la testa” aggiunge Cecilia.

Matteo
“Siamo stati fortunati, due anni è un tempo relativamente breve per un’adozione internazionale” racconta Luca, riferendosi a quanto ha dovuto aspettare prima di poter abbracciare suo figlio Matteo. E ha ragione: secondo gli ultimi dati della Commissione per le adozioni internazionali, soggetto che fa capo alla Presidenza del Consiglio dei ministri, i tempi di attesa sono di circa 45 mesi. Quasi quattro anni.
Anni che servono ai servizi sociali del territorio dove vive la coppia (per la legge italiana possono accedere all’adozione internazionale solo coppie eterosessuali, sposate da almeno tre anni, nei quali possono rientrare periodi di convivenza stabile) per stabilire se i due sono pronti a diventare genitori. Ancora di più, se sono pronti ad affrontare l’infinita trafila burocratica che questo percorso comporta, l’ingente investimento iniziale (che si aggira attorno ai 15-20 mila euro), le attese spesso snervanti, perché apparentemente prive di senso.
Un tempo che comprende poi la scelta dell’ente a cui dare mandato per l’adozione, tra quelli che figurano nella lista della Commissione, che ha il compito di sorvegliarne l’operato. L’ente impiega mesi per rapportarsi con i funzionari del Paese di adozione, fino all’abbinamento tra il dossier dei genitori e quello del bambino. Segue la risposta dei genitori, un nuovo invio di documenti, e finalmente viene fissata l’udienza al tribunale dei minori del Paese straniero. E, anche qui, ognuno ha le sue regole.
Così i tempi si dilatano e sempre meno coppie decidono di perdersi nel groviglio burocratico delle adozioni internazionali: nel 2019, in Italia, sono state 969, il 14% in meno rispetto all’anno precedente e circa la metà rispetto a cinque anni prima, segno che il Coronavirus è davvero l’ultimo dei problemi.
La scelta del Paese richiede ulteriori valutazioni da parte della coppia: “Abbiamo deciso di adottare in Madagascar perché obbligava a una lunga permanenza nel luogo di nascita del bambino, circostanza che scoraggiava altre coppie e che ben si sposava con la situazione lavorativa che avevamo allora – racconta Luca, che precisa – siamo stati tra i primi genitori italiani ad adottare lì nel 2014 perché il Paese aveva da poco riaperto alle adozioni internazionali”.
Secondo Cecilia, i tre mesi trascorsi in Madagascar con Matteo sono stati fondamentali per la costruzione del rapporto: “Inizi a fare famiglia con il bambino nel posto dove lui ha vissuto fino a quel momento, non lo porti improvvisamente via dal suo ambiente, puoi dedicarti alla sua conoscenza, e lui alla tua, in un luogo i cui colori, sapori, profumi, gli sono familiari”.
In affitto da una signora malgascia con un grande giardino e due enormi tartarughe, i tre hanno imparato a viversi, scontrarsi e fondersi, tra prove di cucina, disegni e giochi: “È stato molto simile al lockdown dei mesi scorsi” scherza Luca, che con Cecilia e Matteo ha poi visitato il Paese. “Ci sembrava importante conoscere le origini di nostro figlio, così in quei mesi siamo diventati un po’ malgasci anche noi” commenta Cecilia.

C’era una volta in Madagascar
“La mamma biologica di Matteo è triste, perché non ce la fa ad occuparsi di lui. Allora cerca aiuto e lo affida ad Antonella, che lo accoglie nella sua casa in attesa di farlo incontrare con la sua mamma e il suo papà adottivi. La mamma e il papà biologici sono stati i suoi genitori dell’inizio della vita, la mamma e il papà adottivi saranno i suoi genitori per tutta la vita”. Comincia così “C’era una volta in Madagascar”, il libro illustrato che Luca e Cecilia hanno scritto e pubblicato per raccontare a Matteo la sua storia. E per affrontare quello che, ancora oggi, è un grande tabù: “Tutti pensano e ripensano a come dire la verità al proprio figlio adottivo, e spesso il fatto di avere un bambino più somigliante permette di rimandare il discorso – spiega Cecilia – . Per noi, con un bambino che ha un colore di pelle così diverso dal nostro, è stato molto più immediato e paradossalmente naturale. Poi i bambini le somiglianze le trovano lo stesso: Matteo ha sempre detto che ha i capelli ricci come la mamma”.
Per Luca e Cecilia, la domanda è arrivata presto: “Quando aveva 3 anni e mezzo, vedendo il pancione di sua zia, ci ha chiesto se anche lui venisse dalla pancia della mamma”. Senza paura, i due si accordano con un’amica disegnatrice e iniziano a buttare giù uno storyboard, centellinando ogni parola. “Matteo doveva vedere la sua storia come qualcosa di bello, di luminoso e colorato, ma anche di codificato, con parole che potessero dare senso al suo vissuto. Si trattava pur sempre di raccontare un abbandono” spiega Luca.
“Quando abbiamo letto il libro insieme a lui, una notte al mare, non riusciva a credere di essere il protagonista della storia, l’ha recitato a memoria per tutti i suoi cugini” sorride Cecilia.
Crescendo, le domande sono cambiate, hanno scavato più a fondo diventando, forse, più spaventose: “Lui oggi sa che è libero di domandarci qualsiasi cosa, che non ci ferisce se chiede dei suoi genitori biologici, che possiamo parlare di tutto” precisa però la mamma di Matteo.
Le giornate di lockdown e quelle in zona arancione sono passate in cucina con Cecilia e poi in bici con Luca. La scuola a Matteo non è mancata così tanto: “Mi piace quando sto con gli altri bambini, non quando devo scrivere e studiare. Preferisco la matematica – confida – perché si scrive di meno e si pensa di più”.

Frontiere chiuse, speranze vive
30 marzo 2020. “Se ci fosse stata anche Sofia sarebbe stato un compleanno migliore”. Cecilia riporta nel diario le parole di Matteo, che ha appena spento otto candeline. Il bambino era ormai proiettato verso la nuova avventura che lo attendeva: “È stato un duro colpo per lui, era consapevole di cosa stavamo facendo, avevamo preparato anche un programma di didattica a distanza con le maestre, che però si è realizzato in termini completamente diversi da come ci eravamo immaginati” racconta Cecilia. “Sono deluso, volevo ballare Zumba insieme a lei, invece ancora non posso” aggiunge Matteo, mentre gioca con il tablet sul divano. Alle sue spalle, tre figure stilizzate si incamminano verso il tramonto di fuoco di una terra molto lontana, oggi più che mai.
La pandemia da Covid-19 in Madagascar sta rallentando la sua corsa, ma la buona notizia che aspettano Matteo, Cecilia e Luca non sembra voler arrivare. I tre non sono però disposti ad abbattersi: “Uno dei pensieri che ci aiuta è l’idea che un giorno a questa bambina potremo dire che noi ci abbiamo creduto, sempre, che già adesso stiamo fondando questa famiglia, che questa mancanza e questo desiderio sono già un’appartenenza”.
“Probabilmente non riusciremo ad arrivare neanche per il giorno del tuo prossimo compleanno – scrive Cecilia a Sofia – lo avevamo già sognato e immaginato, insieme a tuo fratello e al tuo papà. Il racconto di queste pagine è per dirti che in ogni momento sei già con noi: attesa, desiderata e già profondamente amata”.