Goliarda
“Penso che l’unico antidoto al fanatismo, anche all’utopia più bella, sia il dubbio”.
Attrice, antifascista, artista, marxista, scrittrice, partigiana. Molteplici vite in una sola, di cui pochi, troppo pochi ricordano la firma: è Goliarda Sapienza, la ladra di gioia.
Il suo nome incuriosiva e ingannava, tanto da lasciarla spesso in disparte. Eppure la sua è stata una vita di contraddizioni rivoluzionarie.
Goliarda Sapienza nasce nella Sicilia degli anni Venti ed eredita un nome importante: Goliardo era il fratello maggiore: “Mio padre aveva perso Goliardo, affogato dai mafiosi già col padronato, all’inizio del fascismo, nel ‘22, a 16 anni”. Iuzza, come era chiamata in famiglia, nasce da una coppia decisamente non convenzionale: la madre, Maria Giudice, era una sindacalista di Pavia a Catania per aiutare i contadini contro i soprusi della mafia nelle campagne; il padre, Giuseppe Sapienza, l’avvocato “dei poveri”, era un libertino. I due avevano figli dai precedenti matrimoni e avevano votato la loro vita all’antifascismo.
Non è andata a scuola, la giovane Goliarda: non per povertà, ma per principio. La sua scuola era la sua famiglia: sette fratelli maggiori, il più giovane aveva sedici anni più di lei. Erano loro erano i suoi maestri. “Papà non voleva che seguissi le scuole di regime. Non voleva, perché diceva che mi facevano una piccola italiana cretina. Ho studiato a casa, con una scuola severissima di tutti questi miei fratelli: Libero mi insegnava musica, Ivano mi insegnava filosofia… Una banda incredibile, straordinaia, io ho vissuto in una piccola società”.
Quella di Goliarda Sapienza è un’infanzia fatta di cultura e intransigenza, ed è su queste basi che si snoderà il resto della sua vita. A 16 anni, a Roma con la madre, scelse la strada del teatro: perché da donna insolitamente libera, aveva il diritto di seguire i suoi sogni. Arriva all’Accademia di Arte drammatica di Silvio D’Amico. Non la terminerà mai, nauseata dalla falsità di un mondo così distante dal suo. Eppure in mezzo a quegli uomini – da Luchino Visconti a Cesare Zavattini, passando per Luigi Comencini – Goliarda continua a crescere, forgiando il suo linguaggio e accarezzando l’idea di diventare altro da quello che la società voleva per lei.
In mezzo, la seconda guerra mondiale, la scelta della resistenza, i tentativi di suicidio, l’elettroshock e la rinascita. Una rinascita che la vede in una vita nuova: quella nelle vesti di scrittrice. “Non ne potevo più, era morta mia madre. Non riuscivo a uscire da questa fatica del lutto, che non sapevo che si chiamasse così. E una notte ho scritto la mia prima poesia”.
È il 1967, Goliarda Sapienza ha 43 anni e pubblica il suo primo romanzo, Lettera aperta, in cui racconta la sua infanzia catanese. Ma la vita di Modesta cambia pelle, ancora e ancora. Nel 1980 finisce in carcere, per sua scelta, come confesserà: “Ho rubato a una mia amica dei gioielli, non avevo soldi. Un po’ una delusione dalla gente del cinema l’ho avuta, perché se io facevo questa cosa, il processo, a New York ci avrebbero fatto subito un film”:
Da questa esperienza nascerà un altro libro, L’università di Rebibbia. Il carcere le fornisce finalmente le lenti giuste con cui guardare la realtà. Lenti che ancora oggi, 40 anni dopo, sembrano sul filo del rivoluzionario: “Ho fatto benissimo ad andarci. Quando mi sono trovata dentro la realtà è stata sempre diversa da quella che si pensa. Ho imparato – cosa che già sapevo – che si è fatto pochissimo. Lo tocchi con mano ed è terribile vedere che lì dentro ci sono tutte persone come sono io, ma non io che ho rubato, come io se non rubavo, cioè persone straordinarie”.
Il carcere le serve. È una scuola, per Goliarda Sapienza, che spende la vita a scrostare le parole dallo stantio della tradizione: “Mi si è rinnovato il linguaggio. C’è chi sciacqua i propri panni in Arno e chi a Rebibbia. Mi ero imborghesita, mi ero infragilita come una persona che perde le mani per il troppo lavoro intellettuale. Lì sono rinata”.
È una miccia contro le regole della società ammuffita, Goliarda Sapienza. È una granata esplosa in seno al patriarcato, contro un codice rigido in cui lei e i suoi personaggi stanno stretti. Prima fra tutti Modesta, il suo alter ego nel pezzo di letteratura che Goliarda Sapienza consegna alla storia nel 1976, dopo una gestazione durata sette lunghi anni: L’arte della gioia vede la luce ma è destinato all’ombra ancora per molto.
Dentro c’è il ritratto di una donna forte e libera che spiazza una Sicilia retrograda e reazionaria. Modesta scandalizza e commuove, distrugge e ricostruisce, Modesta racconta un femminile nuovo. Intimo e universale, dove il personale si fa politico e lo slogan del femminismo degli anni Settanta si incarna nella storia di una donna che rompe gli schemi, rompe con le sue contraddizioni il mondo vecchio e ne consegna uno nuovo, fatto di emancipazione e libertà.
Dicono di lei: “Sento che qui c’è il mio essere donna rappresentato, amplificato, magnificato al massimo, quidni sono felice di questa cosa che mi dà gioia”; “ei credeva di fare un romanzo popolare, ma non lo fece affatto: fece un romanzo delle donne”; “è l’esatto opposto del messaggio lanciato dal Gattopardo: a questa figura fa da contraltare una donna che dice al contrario ‘no, cambiare è possibile’”.
L’Arte della Gioia non trova fortuna: viene rifiutato più volte, mentre Goliarda Sapienza resta sconosciuta e povera. Nel 2005 un editor francese lo scopre, in Italia lo pubblica Einaudi solo nel 2008.
Goliarda Sapienza è seconda, con un nome affidato all’oblio per troppo tempo, mentre un’Italia miope e soffocata dall’incoerenza credeva di essere prima, ma arrivava solo tardi. È una ladra di gioia, Goliarda Sapienza e quella gioia, senza egoismi, ha saputo consegnarla in eredità a chiunque scelga di leggerla.